Dei problemi del lavoro ha parlato al Cub il 18 gennaio il Segretario regionale del sindacato Cisl Alberto Monticco. 10 anni di crisi hanno ormai modificato strutturalmente la nostra società e ne usciremo, quando ne usciremo, in un contesto assolutamente diverso: questo vale per le aziende, per il sindacato ed anche per il mercato del lavoro. Questa considerazione, ha detto l’oratore, va confrontata con il rapporto Caritas 2017: durante il 2016 si sono recati nei 42 Centri di Ascolto Caritas aperti in Regione 5.089 persone.
Per della metà (52%) maschi, molti (53,6%) con un minore a carico mentre il 30,2% viveva da solo.
Un dato che fa emergere la povertà e le difficoltà in cui vivono queste famiglie e che diventa povertà e difficoltà dei bambini e dei ragazzi, ponendo un primo quesito sulle garanzie minime per una vita dignitosa nel presente e per un futuro che preveda la possibilità di un riscatto dalla povertà.
L’altro problema che emerge è la difficoltà delle persone sole: una persona su tre dichiarava di non avere legami familiari, di non percepire alcun reddito perché da lungo disoccupate. Si aprono, in questi frangenti, problemi di dipendenza, psicologici e relazionali. La mancanza del lavoro determina la fragilità abitativa, che porta alla povertà estrema e all’emarginazione sociale.
Nelle storie di queste 5.000 persone (una punta del fenomeno stesso perché hanno avuto il coraggio di andare in un centro Caritas) ci sono percorsi di emarginazione di lungo corso ed altri determinati in tempi recenti da un licenziamento, una malattia, un evento luttuoso.
L’attuale periodo storico ci impone riflessioni ed interventi sulle criticità ancora molto pesanti e – dall’altra – sulle grandi opportunità inedite, che vanno declinate anche sul fronte del lavoro e dell’occupazione. Sul mercato del lavoro regionale i dati non sono tranquillizzanti : nel secondo trimestre 2017 gli occupati in Friuli Venezia Giulia sono saliti a 508.007, con un +2,1% rispetto allo stesso periodo del 2016, con un tasso di occupazione il più alto registrato dalle rilevazioni trimestrali Istat a partire dal 2008 ma la crescita è dettata prevalentemente dalla stipula di contratti a termine e dale grandi crisi industriali che hanno colpito il Friuli Venezia Giulia in questi anni che non sono affatto superate. Sui tavoli regionali e del Mise, ad oggi, si è quasi chiuso il nodo Wartsila e restano aperte le vertenze, ad esempio, Sertubi, Ferriera, Mangiarotti, Idealstandard e, per quanto riguarda il settore del legno e dell’edilizia, Colombini di Trieste, Legnotecnica e Salp di Udine, oltre alle negatività consolidate nel comporto edile pordenonese. Si tratta di un migliaio di lavoratori. Ma stanno per aprirsi anche le crisi della Burgo e della Eaton, crisi che covano da anni.
Il sindacato ha spesso espresso l’urgenza di essere conseguenti a Rilancimpresa (la L.R. sul rilancio dell’industria del settore manifatturiero) a partire dalla costruzione sistemica e strutturata di filiere innovative, capaci, con le proprie lavorazioni e prodotti, di supportare le grandi aziende della regione, ma soprattutto prendere in mano con maggiore determinazione le crisi in atto.
Le ragioni della inefficacia delle modalità di gestione delle stesse, e quindi sull’inefficacia di assicurare interventi più decisivi e tempestivi non sono facili da identificare e nemmeno da risolvere: uno di essi potrebbe essere la L.R. n.18/2005, la cosiddetta “legge del buon lavoro” che, nata in un periodo abbastanza tranquillo, ipotizza una serie di strumenti, ma non dà dotazioni.
Anche sul campo formativo, la distinzione di accreditamento fra formazione e orientamento, non ha aiutato il territorio. Un altro problema è la carenza di “imprenditori locali”: una delle caratteristiche comuni di gran parte delle crisi regionali è dovuta al fatto che le aziende sono multinazionali, con “headquarter” esteri non sempre industriali (quindi fondi finanziari, come nel caso Ideal Standard) o comunque gruppi con altre sedi sparse per l’Italia (come nel caso Burgo). Diventa quindi problematico per tutti, istituzioni – rappresentanze datoriali – organizzazioni sindacali, riuscire ad aprire “canali relazionali e comunicativi” in questi casi. Persino il Mise si è arreso davanti al management italiano della Idealstandard , incapace di qualsiasi decisione dal momento che il fondo estero diventato proprietario del gruppo gli aveva negato qualunque mandato.
Abbiamo multinazionali svedesi ( la Elx) austriache ( la Eurocar) romene (la Flextronics) americane, (la Sensor Sistem) ex giapponesi ed ora americane con possibile interessamento di un fondo canadese ( la Mangiarotti) indiane, (la Sertubi) finlandesi (la Wartsil).
Le logiche delle multinazionali sono di difficile analisi e gestione. Inoltre c’è anche un altro aspetto che va sottolineato per evitare di trovare alibi, comodi per la parte social della società ma inutili dal punto di vista pratico di tutela del lavoro e del patrimonio industriale. La logica che la riunione al Mise possa risolvere problemi strutturali della azienda specifica o del territorio: prossimamente ci sarà al Mise la riunione su Eaton e purtroppo quello che non è stato fatto negli ultimi 3 anni molto difficilmente potrà essere recuperato in una sola riunione e nemmeno che gli sbagli fatti, da qualsiasi attore della vicenda, si possano cancellare : le soluzioni fra chi vive l’azienda e il territorio, non possono essere trovate altrove. Le unità anti crisi possono avere ruolo e valore se gestite da professionisti che sono consapevoli delle difficoltà e del compito loro assegnatoli e che
proprio per questo sanno operare per tempo nella logica di “ancoraggio” al Territorio.
Servono interventi e strategie di campo, ma anche di medio-lungo respiro. Serve una enorme capacità di visione che ci porti, partendo dai bisogni del nostro territorio, ad aprirci a nuove prospettive, anche contando sulla nostra vocazione geografica internazionale. Come la partita della logistica e delle infrastrutture puntando non al solo smistamento delle merci, ma semmai a creare hub strettamente funzionali all’industria, alla produzione sul territorio e, di conseguenza, al rafforzamento della componente occupazionale. Con infrastrutture e assetti logistici di questo tipo potremmo costruire anche quelle filiere oggi indispensabili al mantenimento delle grandi aziende regionali: filiere che potrebbero svolgere una funzione di retrobottega andando a valorizzare maestranze e lavorazioni oggi lasciate a se stesse o a sviluppare nuovi settori come le riparazioni navali, facendo dialogare gli scali di Trieste, Monfalcone e San Giorgio di Nogaro (ed i relativi interporti), l’integrazione tra sistema della ricerca , chiarezza tra mondo imprenditoriale e territorio inteso come fabbisogni produttivi, la formazione mirata attraverso il sistema duale. Tenendo a mente queste priorità d’intervento, e pensando al rilancio del sistema manifatturiero del nostro La cosiddetta rivoluzione 4.0, è destinata ad incidere sensibilmente sui processi produttivi, sull’organizzazione dell’impresa e del lavoro e, quindi, sulla competitività. Stare fuori dalla partita del cambiamento significherebbe essere stritolati.
L’Europa – con un piano da 50 miliardi di euro – e successivamente i singoli Paesi, hanno avviato un percorso finalizzato all’individuazione di misure specifiche in grado di sostenere questo nuovo percorso di sviluppo. Il nostro “Piano Nazionale Industria 4.0”, anche noto con il nome di “Piano Calenda” si pone come obiettivo quello di favorire gli investimenti privati e sviluppare competenze appropriate per esplorare le opportunità derivanti dal nuovo paradigma attraverso strumenti pubblici di supporto e la predisposizione delle infrastrutture abilitanti necessarie. Esso punta a mobilitare fino a 10 miliardi di euro in investimenti privati in più entro il 2020, oltre ad un aumento di 11,3 miliardi di euro in spesa privata e la mobilitazione di 2,6 miliardi in volumi di investimenti early stage. Ma gli incentivi dovrebbero diventare strutturali e non soggetti a proroga ogni anno, con il rischio di determinare solo un fuoco di paglia di acquisti tecnologici. Quanto all’investimento umano mancano manager e professionisti con le qualifiche adatte, mancano lavoratori capaci di muoversi all’interno dei nuovi sistemi, di operare su macchine connesse.
Il Senato ha evidenziato alcune opportunità di carriera derivanti dall’Internet of Things, a patto che il 44% dei lavoratori italiani modifichino le proprie competenze. Regionalmente un buon esempio in questa direzione viene dall’apertura di uno specifico sportello del lavoro presso Fincantieri primo tentativo di realizzare autentiche politiche attive del lavoro. Una pratica replicabile su tutto il territorio.
Non dobbiamo temere le innovazioni e la tecnologia ma dobbiamo avere la capacità di gestire le opportunità che essa può portare e di immaginare (di sognare) una società in cui l’essere umano sia sempre protagonista. In questo scenario di considerazioni non può non preoccupare il quadro di povertà crescente che si sta delineando anche in Friuli Venezia Giulia. Sono a rischio povertà oltre 100mila persone che vanno in qualche modo a sommarsi alle persone che oggi vedono vacillare il loro posto di lavoro (92.000?) . Questa infatti la somma fra disoccupati ufficiali, lavoratori a rischio e neet – l’acronimo inglese per indicare persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione, “not (engaged) in education, employment or training”).
Dopo gli ammortizzatori sociali la sfida vera è quella di saper costruire politiche non più passive, ma attive del lavoro che si devono tradurre in formazione, ma anche in servizi messi a disposizione di chi vuole lavorare. Così ad esempio maggiori servizi di cura, di assistenza, per l’infanzia a supporto delle madri lavoratrici. Una chiave di lettura più “umana” porta si ad una profonda politica redistributiva di reddito e ricchezza, ma anche ad un più incisivo ruolo dei lavoratori all’interno dei processi produttivi, in termini di partecipazione, ancora punto di svolta per costruire una società concretamente inclusiva, profondamente umanistica, presente ai molteplici stimoli contemporanei.
Le partire da giocare sono molte, ma in chiave unitaria nel suo significato più ampio: sindacale, politico, territoriale………Occorre superare la fuga dalle responsabilità, l’ancorarsi al passato per il timore del futuro, la litigiosità ed i miopismi campanilistici che non producono alcun risultato concreto, il reclamare lavoro e poi fare di tutto per disincentivare gli investimenti e gli insediamenti, l’ enfasi e ruolo di chi, oggi, contesta quello che ha condiviso o condivide quello che in passato ha contestato Per portare le ricadute positive di industria 4.0 sul territorio servono sinergie “strutturali” a partire dal sistema della portualità, implementazione dei traffici e delle merci sulla traiettoria dei grandi Corridoi con la connessione tra gli scali di Trieste, Monfalcone, San Giorgio di Nogaro e gli interporti; la valorizzazione di tutte le caratteristiche dei porti della nostra Regione: i fondali di Trieste, che sono i più alti del Nord Europa, gli spazi e le aree di Monfalcone e la “logistica geografica” di Porto Nogaro. Assieme alla integrazione del sistema ricerca con il mondo imprenditoriale e i fabbisogni produttivi del territorio, contando sulla straordinaria vocazione regionale alla ricerca e contando anche sulle nostre Università. Allo sviluppo in chiave 4.0 del mercato del lavoro (attenzione al matching domanda/offerta; mappatura delle nuove competenze ed incrocio con la domanda) sfruttando la posizione molto vantaggiosa della regione, a poche ore dai mercati più ricchi, ponte tra aree europee e mediterranee, con una posizione che deve rinforzare la sua centralità con le infrastrutture e la logistica che completano gli assi di spostamento.
Ma l’attrattiva agli investimenti si gioca anche con livelli ottimali di formazione ed istruzione, condizioni sanitarie ed ambientali, efficienza burocratica, sicurezza sul lavoro e nel territorio.
Si sta parlando spesso di scuola lavoro, non sempre cogliendo la reale portata del progetto, non sempre in termini positivi, non sempre con cognizione di causa. L’alternanza scuola-lavoro è un’occasione che permette ai giovani di mettere un piede nel mondo del lavoro, anche se non sarà il lavoro della loro vita quindi un’occasione formidabile, contrariamente a come spesso viene presentata, soprattutto dai media, evidenziando così come si tenda sempre a non prendere in considerazione e valorizzare le buone pratiche.
Abbiamo bisogno di uno sviluppo convinto del sistema duale nella formazione dei giovani, improntata anche alle nuove professionalità richieste. Esso è un ponte tra scuola e lavoro, non lavoro sommerso, sottopagato e nascosto. Ancora oggi varie esperienze, compreso l’apprendistato e il tirocinio hanno perso valenza formativa per diventare strumenti di abuso del lavoro. Rivedere i tirocini perché non diventino lavori sottopagati, significa occuparsi dei giovani e creare le condizioni di alternanza scuola-lavoro efficace. In chiusura l’oratore ha fatto una riflessione sul tema della contrattazione/concertazione: quando riusciremo ad interpretare questi termini in una logica di condivisione per migliorare/gestire/programmare e quindi per aiutarci reciprocamente, nel rispetto dei ruoli, in quel momento riusciremo ad incidere nelle dinamiche del mercato del lavoro.
Fino a quando contrattazione e concertazione saranno viste come momenti di possibile tensione rivendicativa, perderemo delle occasioni per cogliere opportunità e prospettive.
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